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Collezione Marone

Museo e Arte


Giovanni Maria Marone sanciva la donazione della sua collezione di dipinti alla comunità eustorgiana con un accordo formalizzato nel testamento del 4 giugno 1663 e reso esecutivo con la morte del donatore il 26 dicembre 1665 e l' acceptatio dei religiosi il 12 gennaio 1666.

La donazione, comprendente nella sue versione originaria settantacinque dipinti e nove arazzi, non è finalizzata a qualificare la sacrestia: la precisazione che essa vada collocata colà “sotto chiave” chiarisce trattarsi di un mero deposito di sicurezza, non di uno spazio “alla veneziana”.

La vera destinazione dei dipinti è costituita dalle temporanee ma ricorrenti esposizioni nel chiostro, e dall'ornamento della basilica: legate le prime a precise indicazioni, volte a sottolineare la devozione del Rosario come grande punto di congiunzione fra la spiritualità domenicana e il coinvolgimento laicale (giocato, oltretutto, nella pubblicizzazione temporanea dello spazio conventuale del primo chiostro); lasciato il secondo alla discrezione dei padri predicatori, ossia alla convinzione della plurisemanticità dell'arte e della sua conseguente utilizzabilità multipla.

L'immagine che emerge è di assoluto primato dell'arte lombarda dal Rinascimento ai tempi del collezionista, gran parte delle tematiche rientra nel soggettario più diffuso, con un discreto nucleo veterotestamentario (sette dipinti) e la consueta prevalenza neotestamentaria.

E' anzitutto chiaro che la donazione del 1663 costituisce una selezione dalla raccolta, che comprendeva almeno altri ventisette dipinti giungendo così alla cifra complessiva di centodue.

Le specificità si giocano a diversi livelli: presenza di soggetti profani; mantenimento delle istanze protettive, presenze innovative sul piano iconografico veterotestamentario e santoriale; citazioni nuove di artisti e altre ripetute, mentre gli altri ventiquattro dipinti sono anonimi.

Il risultato complessivo è dunque quello di una collezione articolata, decisamente superiore alla media dei quadri “d'arredamento”, attenta al dato conservativo, scandita su meno di due secoli e con un evidente milanocentrismo.

Un inventario settecentesco registra solo quarantadue dipinti, ma la data tarda rende possibili perdite ed alienazioni. A questo corpus si possono aggiungere i dati dell'inventario del 1663, e le tre opere regestate nella acceptatio.

Si arriva così ad un totale di venticinque identificazioni certe e quattro probabili ossia, nella migliore delle ipotesi, circa il 28,4% del totale massimo. Le attribuzioni risultano sostanzialmente corrette, a parte una prevedibile concentrazione sul Cerano di opere dei suoi seguaci, e un uso estensivo (non raro) del termine “copia”, indicante anche variazioni almeno parzialmente autografe sul tema.

Emerge quindi l'immagine di una collezione assolutamente emblematica nella sua medietas : composta da un numero abbastanza elevato di dipinti, attenta alla zona geografica di provenienza, capace anzi di ricostruirne lo sviluppo cronologico dalla fine dell'età sforzesca a quella contemporanea secondo un filone di discreto ma costante classicismo, capace di leggere anche autori come Cairo e soprattutto Storer in questi termini. Termini, si noti, del tutto confacenti a quella sensibilità aresiana ormai prevalente nella Milano di settimo decennio.


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