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Museo e Arte
La bibliografia critica finora dedicata alla basilica eustorgiana e alle vicende pittoriche relative (una buona sintesi in Bora, 1984) ha posto in evidenza la ricchezza del patrimonio pittorico mobile, giocato sui due grandi nuclei dei dipinti destinati allo spazio sacro – soprattutto pale d'altare, a complemento dei grandi cicli ad affresco – e di quelli realizzati per il convento domenicano.
Di entrambi rimangono numerosi resti, ma l'immagine d'insieme è ormai spezzata: le frequenti ricollocazioni dei primi a seguito delle mutate dedicazioni degli altari e le dispersioni dei secondo dopo le soppressioni appaiono certo le ragioni più forti, a tal punto da rendere urgente un'indagine come la presente volta alla schedatura di quanto ancora esiste.
La dichiarata volontà di privilegiare l'esistente e di concentrare l'attenzione sul materiale mobile ha implicato la scelta, di comodo ma anche razionale, dell'ordine cronologico, che permette d'intuire sequenze di committenza non sempre corrispondenti al tempo di esatta acquisizione dell'opera (si pensi alla collezione Marone, ricca di dipinti di primo Seicento giunti nel convento solo nel 1666) ma comunque significative.
Emerge così un quadro estremamente ricco, cha spazia cronologicamente dalla metà del Cinquecento alle soglie dell'Ottocento. L'articolazione stilistica è altrettanto ricca, fino a costituire quasi una silloge della produzione milanese dal Manierismo al Neoclassicismo e una serie ridotta ma significativa di apporti “foresti”.
Dopo l'esordio di Cristoforo Bossi, pittore dai ricchi rimandi veneti, si passa al revival neomichelangiolesco di Andrea Pellegrini ed alla grande stagione manieristica di Carlo Urbino, di Giovanni Ambrogio Figino e soprattutto di Paolo Camillo Landriani, quel Duchino la cui massiccia presenza nella decorazione della basilica lascia trasparire la volontà domenicana di servirsi di un coerente e prevedibile “pictor devotus” negli anni di rielaborazione dell'eredità (anche pittorica) carliana durante l'episcopato di Gaspare Visconti e gli inizi di quello di Federico Borromeo; una derivazione dal Bastianino e una fitta serie di copie da originali quattro e cinquecenteschi (in particolare Gaudenzio, Luini, Lanino, ora singoli ora combinati) ci introducono in quelli che furono, appunto, dati frequenti nelle scelte del secondo, a livello sia di gusti collezionistici personali sia di promozione pastorale.
La più precisa eredità federiciana, ossia la capacità dialettica di far coesistere un neomanierismo pienamente conscio del suo recuperato classicismo con tardomanierismo fortemente protobarocco, trova piena conferma nella quadreria eustorgiana: da un lato la bella tela del Moncalvo, l'opera di Giovanni Mauro Della Rovere (il Fiammenghino ben più presente in basilica prima dei radicali restauri otto-novecenteschi), il caso più corrente di Francesco Valletta; dall'altro la grande lezione del Cerano attraverso le derivazioni, l'opera più nota del congiunto Ortensio Crespi, la scuola altamente rappresentata da Melchiorre Gherardini e da Gerolamo Chignoli; in mezzo la Decollazione del Battista , dove i fratelli Camillo e Giulio Cesare Procaccini realizzano un “quadro delle due mani” in cui classicismo accademizzante e barocco rubensiano mostrano, più che il paragone, la piena omologabilità linguistica.
E' un frammento, certo, della ricchezza operativa del primo quarto del Seicento: ricchezza attestata dalla quantità di opere superstiti e dai documenti, che ci portano ad esempio allo snodo 1619-1621 (cfr. Bora, 1984, p. 189) comprendente l'articolata campagna figurativa commissionata ai Procaccini (stavolta Carlantonio e Camillo), a Daniele Crespi, al Fiammenghino e al Valletta: gli stessi nomi, a parte Daniele impegnato nella cappella di San Paolo per fortuna ancora esistente, dei dipinti superstiti, ad attestazione di una cultura i cui rimandi al mondo profano sono esplicitati dalla copia di un'iscrizione di palazzo Visconti Borromeo a Lainate, il primo fulcro di quella cultura ermetica – qui più tardolomazziana che altro – poi codificata dalla consorteria Arese: e non è un caso che il vasto ciclo pare giocato su alcuni temi (i Novissimi, il Santoriale visto come Corte Celeste) non privi di ansie apocalittiche e di visioni ultraterrene, molto più affini di quanto non ci paia alle inquietudini dei rabisch .
Del resto nel complesso mondo eustorgiano c'era posto anche per il classicismo caravaggesco di Giuseppe Vermiglio, colto nella definizione del tema difficile dell'Apostolado legatissimo alle riflessioni in materia di Camillo Procaccini con la celebre serie arcivescovile.
Il passaggio generazionale, oltre che dai ceraniani, è visualizzato dalla pala di probabile collaborazione fra Panfilo Nuvolone e il suo giovanissimo, promettente figlio Carlo Francesco, dai linguaggi ricercati di Vincenzo Ciniselli e forse di Giovanni Maria Arduino; quasi alternative, ma in fondo non radicali, all'esplodere barocco della Strage degli Innocenti dello Storer, il più importante frammento di quella collezione Marone il cui arrivo in convento nel 1666 segnò la punta più alta di un fenomeno malnoto e vitale: un collezionismo laicale forgiato dalla cultura domenicana, realizzato nell'acquisto o committenza di opere prestate alla basilica in occasioni festive e infine eternizzato nella donazione ai religiosi.
Gli anni centrali del Seicento vedono inoltre la conferma qualitativa del Nuvolone con la Nascita della Vergine di vasta fortuna imitativa, per poi far chiudere il secolo alla splendida paletta di Andrea Lanzani già lanciato in una dimensione prerocaille di respiro europeo. Se il bozzetto del Vimercati è vitale ma da leggersi in vista della pala di Rho (1714), il fatidico 1733, anno non si dimentichi dell'occupazione sabauda di Milano, vede due paralleli rinnovamenti di cappelle: quella di San Vincenzo Ferrer con le tre tele di Antonio Lucini; e quella di San Giovanni Evangelista con la pala di Antonio Fratacci.
E' vitale e gustosissimo il raffronto di questi due classicismi: l'immota, solenne pittura del milanese contrapposta ai lampi vivacissimi del bolognese, pure tutt'altro che alieno dagli apporti ambrosiani del Legnanino. Il discorso si chiude col problematico ritratto attribuito al patetico, brillantissimo tardorococò di Federico Ferrario, alla vigilia o in contemporanea al compassato classicismo anonimo del Battista predicante che ha trovato nel battistero eustorgiano la sua congrua ma non antica collocazione.
Il cammino della scultura appare più lineare, affidato com'è ad un numero esiguo di pezzi, frammenti di un ben più vasto corpus: il grandioso Calvario di metà Cinquecento, ancora memore dei grandi modelli di Andrea da Saronno; l'opera di Carlo Nava per gli altari della Passione e di San Pietro Martire, coeva non a caso delle citate imprese di Lucini e Fratacci e come loro in grado di offrire un delicato equilibrio fra tradizione e rinnovamento; infine, a una data che è difficile ammettere 1781, la Madonna del Rosario di Pietro Viganò, perfetta silloge di due secoli di esercizi sul tema, finemente senza tempo a pochissimi anni dalla fine dell'Antico Regime.
Mi pare che risulti evidente, al termine di questa carrellata, il valore complessivo della raccolta eustorgiana: testimone preziosa delle vicende della basilica e della comunità domenicana, essa è anche un ricco tornasole di una serie di problemi (iconografici, stilistici, storici) che baricentrano su Milano ma coinvolgono un'area ben più vasta, fornendo spunti di ricerca e indicazioni metodologiche su scala molto articolata.